«I robot avranno una personalità, per aiutare meglio l’uomo»- Corriere.it

2022-05-29 03:08:41 By : Ms. Anna Zhong

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Alessandra Sciutti dell’Istituto Italiano di Tecnologia racconta il suo lavoro su iCub, la macchina umanoide creata all’Iit: «Il futuro è dei cobot, cooperative robot capaci di capire l’uomo e dunque di affiancarlo nel quotidiano»

Nel 1920 lo scrittore ceco Karel Čapek scrisse il dramma in tre atti R.U.R. (Rossumovi univerzální roboti) dove compare per la prima volta la parola robot (dal ceco robota, «lavoro duro, lavoro forzato»). I roboti di Čapek non sono in realtà robot nel senso poi attribuito al termine, ovvero automi meccanici, ma esseri «costruiti» producendo artificialmente le diverse parti del corpo e assemblandole insieme. In quest’opera l’autore immagina una società basata sul lavoro dei robot semi-umani, mancanti solo dell’anima, che piano piano si ribellano e schiacciano gli uomini. L’opera è a lieto fine, in quanto gli stessi robot scoprono l’amore e i sentimenti. (da Wikipedia)

Un bambino di poco più di un anno, ancora in fase preverbale, di fronte a un adulto che fatica ad aprire una porta, cerca di aprirla per lui. Scendiamo ancora di età: i neonati, anche di pochi giorni e dunque con la vista in formazione, capiscono se un movimento è di origine biologica – la mamma che muove un pupazzetto – oppure è meccanico (una giostrina posta sopra la culla). Sono quelle che Alessandra Sciutti, 39 anni , ingegnera all’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit), definisce «previsioni di altissimo livello». Capacità straordinarie dell’essere umano sulle quali, crescendo, si costruisce una complessità che le intelligenze artificiali possono per ora solo ammirare . Sciutti con il suo team Contact (COgNiTive Architecture for Collaborative Technologies , architetture cognitive per tecnologie collaborative) lavora su questo paradigma per sviluppare una nuova tipologia di robot. «Se partiamo dall’edificio costruito, e quindi proviamo a fare del reverse engineering per capire come funziona l’intelligenza umana, ci mettiamo su una strada davvero complessa — spiega —. E non è solo questo: osservando il palazzo ultimato, non abbiamo alcuna possibilità di sapere quali e come sono state le impalcature che sono servite per costruirlo».

Se l’uomo e la donna sono meravigliose tecnologie della natura, perché non provare a seguire il percorso attraverso cui si formano? iCub, il robot nato come progetto all’Iit nel 2003, ha dunque le fattezze di un bambino: un corpo «sensibile» e sensi attraverso cui sentire/esplorare il mondo. «Abbiamo deciso di seguire una strada più semplice ma che si prospetta anche molto lunga — prosegue Sciutti —. Lavorare con un robot bambino significa iniziare dall’insegnare capacità di base con l’idea di stratificarle man mano. Una volta assimilate, tramite deep learning puntiamo a farlo arrivare a unirle e quindi a generalizzare». Un lavoro che all’analisi del machine learning affianca la capacità della macchina di sintetizzare. «Capire davvero significa sviluppare la capacità di prevedere e dunque di adattarsi». Il bambino (umano) osserva dapprima un’attività – come spostare un bicchiere –, seguendo l’oggetto di questa: il bicchiere. Quando impara l’attività stessa, si focalizza sulla finalità: portarlo alla bocca per bere.

Per compiere questo passo occorre uscire dall’errore di Cartesio, separare nettamente res cogitans e res extensa , la mente dal corpo. «L’inganno è di considerare l’intelligenza come sola logica, senza considerare il ruolo dell’emotività e della relazione con l’altro. Noi veniamo modificati dall’interazione con l’altro , e allo stesso tempo lasciamo qualcosa di noi nell’altro: le relazioni sono una costruzione, un mutuo cambiamento», ci spiega Sciutti, che a Milano ha tenuto un talk magistrale al BrainForum di Emotions. Il progetto su cui lavora il team di Genova, a cento anni dalla nascita della parola «robot», è sul concepire le macchine del futuro. I cosiddetti «cobot»: cooperative robot progettati non per sostituire l’uomo ma per affiancarlo. «Per questo non ci serve un burattino che svolge quello che gli diciamo di fare o un camaleonte che ci copia. Vogliamo un vero agente, con una propria personalità . Detto tra virgolette, perché usare questa definizione per una macchina ci porta poi a discussioni filosofiche complesse». Anche solo guardandolo al lavoro, è faticoso considerare iCub solo una macchina: l’aspetto – frutto di un lungo lavoro di design – spinge immediatamente a una relazione umana con questo robottino alto poco più di un metro. Ed è proprio questo tipo di relazione il focus della squadra di Sciutti, un mix di ingegneri, neuroscienziati e psicologi che lavorano con il modello come un vero compagno di lavoro.

Un ruolo chiave negli esperimenti dell’Iit è dunque giocato proprio dal corpo del robot, l’embodyment del software, il corpo e la mente che lavorano assieme. Per questo il film Her – «Che mi è piaciuto tantissimo» – ha fatto arrabbiare Sciutti: «Così tante capacità in un’intelligenza artificiale, anche quella di provare sentimenti, senza la presenza di un corpo non sono minimamente pensabili. Il nostro vocabolario lo sviluppiamo proprio agendo nel e con il mondo». I 50 modelli di iCub sparsi nei laboratori di tutto il mondo sono dunque anche dotati di una pelle artificiale, capace di sentire il contatto, mentre l’udito è riservato a microfoni creati sulla somiglianza dei padiglioni auricolari umani. «Il ruolo del corpo è fondamentale nella percezione: se sono dotato di gambe, considererò una porta e una scala allo stesso modo, come luoghi di passaggio. Se ho delle ruote sarò portato a valutare le scale alla stessa stregua di un muro».

Capacità simili sono la base per sviluppare modi di agire e pensare simili. «L’obiettivo tecnologico è di sviluppare macchine utili . Il nostro approccio scientifico punta a creare robot che sappiano capirci: come persona, se ho facilità a capire cosa stai facendo riesco a lavorare con te. Questo è l’obiettivo di Contact: la mutua comprensione, cioè un robot che è capace di intuire quello che stiamo per fare prendendo informazioni dal nostro comportamento naturale». Movimenti, tono di voce, sguardi per prevedere il futuro. «Che è quello che il nostro cervello fa quotidianamente». L’intero dialogo con Sciutti, nei laboratori di Genova, è andato a toccare i massimi sistemi. «Siamo programmati per vivere nel futuro , cerchiamo sempre di prevedere perché siamo lenti nei movimenti e il nostro cervello si porta sempre avanti».

La neuroscienza è dunque una base di lavoro fondamentale. Ma sono i risultati stessi ottenuti dagli esperimenti con iCub a generare nuove domande ai neuroscienziati. «Il metodo classico di studio si basa sull’interazione tra uomini, le cui intenzioni e meccanismi non sono manifesti. Il robot simile all’uomo, pur non essendo di certo un prodotto completo, permette un’interazione vera ma anche controllata attraverso i dati ». Si può dunque procedere con il metodo di tentativo/errore. «Quando pensiamo di aver capito il modello di come funziona un’interazione, possiamo cercare di riprodurla sul robot, senza condurla ma impostandola e vedendo dove ci porta. I modelli poi sono tendenzialmente sbagliati (ride, ndr ) ma passo dopo passo ci avviciniamo a dove vogliamo andare». Oltre la fantascienza. «Utilizziamo iCub per capire come funziona l’intelligenza , come noi umani capiamo e ci relazioniamo con il mondo e gli altri. Una volta arrivati all’obiettivo, il risultato può essere applicato ad ambiti completamente diversi». Dalla cura degli anziani al lavoro in fabbrica passando per la spesa al supermercato: il robot universale. Che capisce l’uomo e diventa capace di fare scelte «autonome», e congrue, a seconda dell’ambito in cui viene applicato.

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