Il paradiso all’ombra delle spade. Per la poesia di Andrea Margiotta - Pangea

2022-09-24 05:39:06 By : Michelle Lee

Nei confronti della poesia di Andrea Margiotta, che rappresenta una delle esperienze di poesia più forti e di ampio respiro da me avvicinate in questi ultimi anni, ho avuto spesso la sensazione di avere contratto un debito. A partire da tanti anni fa, esattamente dal 2000 anno di uscita del Diario tra due estati. Un debito di giovinezza, già da quando mi ero proposto di rifletterci su, di scriverci. Tutto però da quel momento sfuma, i contorni si perdono. Stavo per lasciare definitivamente Bologna (come pure lui) e non ne feci niente, la cosa finì lì: confesso che non lo lessi nemmeno. Andò perduto, come l’ultimo ricordo di una lettura insieme, non so dove. Andrea mi ha garantito che ci siamo incontrati più volte in quel periodo, in quegli anni, visti interessi, amicizie e frequentazioni comuni; io, chissà perché, ero sicuro soltanto di una, in quella lettura poco prima della partenza. Una delle tante falle della memoria. Ho cercato, il più possibile, di recuperare qualcosa…

Nel 2000 erano già passati vent’anni dalla comparsa di Altri libertini (1980) di Pier Vittorio Tondelli, libro che segnò uno spartiacque, la comparsa di qualcosa di irriducibilmente nuovo sulla scena letteraria italiana; e già a quindici anni da Rimini (1985). Eppure qualcosa li mette in relazione con l’opera di Margiotta, col Diario tra due estati, ma anche con Il paradiso all’ombra delle spade in cui predomina sì un aspetto memoriale, ma in cui entrano in scena, con maggiore evidenza, proprio i corpi, la loro drammatica, talvolta tragica consistenza. Oltre a questo, in campo, come in molti testi dello scrittore emiliano, è la giovinezza: bellezza fuggevole di volti e corpi, dolore, intensità vitale, ricerca di rivelazioni. Giovinezza che si esprime in quel brivido, in quel frisson, in quel fremito che scuote, nell’adesione emotiva, psichica, conoscitiva a quell’esistenza che va a comporsi di luoghi, talvolta “assoluti”, rivelatorî; di volti, di incontri, di interrogazioni radicali, di profondità e altezze («da quali profondità della terra / fino a quali celesti sfere?», in Altopiano, un testo del Diario tra due estati). È il fremito che nasce anche dalla precoce consapevolezza di un destino di partenze, di viaggi, di amori e addii (si vedano anche le Lettere bolognesi, poesie in prosa scritte dal poeta a circa vent’anni, poi confluite, come altri testi di quel periodo, nel Paradiso all’ombra delle spade)e dalla gioia di avere in dono una vita da poter spendere con la massima intensità e, già da subito, con la più profonda libertà di accogliere.

Andrea Margiotta, nella sua “nota dell’autore” al Paradiso all’ombra delle spade, uscito dopo 22 anni dalla comparsa del Diario, suggerisce, con notevole consapevolezza autocritica, una delle possibili chiavi per avvicinare la sua opera: la presenza costante della Sehnsucht, parola che rinvia ad una dimensione romantica, a quello struggimento gravido di nostalgia per ciò che è originario, che viene prima. Origine, nascita, anelito verso un assoluto già dall’inizio percepito come perdita, caduta. Apparentemente inaccessibile, non raggiungibile. Nostalgia di quella “casa” che non può essere tale neppure per il dolore (quel dolore che «non ha più la sua casa»). Già in Hölderlin, in All’Etere, ci sono versi che possono far intuire: «Folli in lungo e in largo giriamo; come la vite che erra / Quando le si spezza il bastone, sul quale al cielo si arrampica, / Ci disperdiamo sul suolo e per le plaghe della terra, / Raminghi, andiamo in cerca, padre Etere! Invano, / Giacché a spingerci è la voglia di abitare nei tuoi giardini» (trad. L. Reitani): il desiderio di lasciare la casa, il luogo sicuro, di smarrirne la strada per conoscere e abitare la dimora degli dèi. Proprio la nostalgia di una dimora, anche quando volutamente smarrita, forse rappresenta il sentimento più profondo e radicale che attraversa sia Diario tra due estati,sia Il paradiso all’ombra delle spade, sebbene in declinazioni differenti. Nel Diario lo struggimento si esplicita prevalentemente attraverso l’evocazione della vastità (terre, mari, cieli… Nella loro realtà fisica e nella loro assolutezza al contempo), attraverso la ricerca dell’epifania, appunto, della manifestazione. Per esempio in:

«Ed ecco, nella fredda caduta delle stelle, lei, salita dalle nere scogliere della notte. Prima di primavera, prima della brina sulle grotte, le esplode un’alba celeste sul viso».

«Ora uno sparo lacera l’aria di settembre. Da molto sono chiusi i duelli … Qualcuno tira un colpo, qualcuno bracca (la belva senza volto?)».

O, in qualche modo, anche nell’invocazione-preghiera al “Dio innocente”:

«fulminami di grazia cuore e mente, tu che sei il Dio innocente, ch’io sappia finalmente quel che sarò e quel che sono e fui».

Nel Paradiso all’ombra delle spade,il sentimento è nostalgia attraverso la rimembranza, volontà di recuperare ciò che minaccia di perdersi, attraverso una dinamica prossima alla narrazione. Citando Sandro Penna, si potrebbe dire che quella «grazia fulminante» non c’è più, ma «il soffio di qualcosa che verrà» sì. Al di là del fremito, del frisson legato al manifestarsi della giovinezza come momento aurorale, emotivo e conoscitivo, l’itinerario tracciato dalla poesia di Margiotta sembra nutrirsi anche di un altro topos, in maniera più esplicita o talvolta più “sommersa”. Quel Wanderer che mai (forse) ritroverà la sua origine, ma che si protende incessantemente verso la percezione e la rivelazione di essa anche della vastità, nella dismisura (dell’amore in particolar modo), nell’infinità. Il viandante, ma anche l’ungarettiano «nomade d’amore» nel Porto sepolto, stendendo il suo Diario, non può saziarsi solo del suo vagare. Non solo si nutre di lontananze e nostalgia per l’oltranza, ma avverte il limite, la finitezza, il gelo delle cose, per oltrepassarlo; quel gelo che, principalmente nel Diario tra due estati, è segno di una condizione, di un momento, necessarî ad aprirsi verso un salto conoscitivo.

Poeta viandante-nomade d’amore, Andrea Margiotta scorge, vede, nel suo viaggio anche la «natura / nel suo innominabile oltraggio», anela al «più lontano»; è un corpo e un’anima di fronte all’eccedenza, alla vastità «oltre i vaghi segnali del querceto». L’oltranza, ecco: «Quale castello / sovrasterà quei monti / che furono corona ai nostri capi?». Oltranza anche come eccedenza di vita, anche oltre la morte, amore smisurato:

«quando si sfascerà la viola nella sera e il bacio per sempre dato, per sempre disperato

allora potrai dire d’avere amato oltre le notti, i sensi, le apparenze»;

«Forse avrai creduto di avere amato – incamminando l’auto in cose sante – e di amare perfino oltre misura. Ma fu poco e la luna mutò il mare e il transito dei venti sopra i monti, le stelle fisse divenute rondini».

Il poeta viandante-nomade d’amore cerca segnali nei paesaggi, nel vento, nella luce in ogni momento del giorno e in qualsiasi condizione atmosferica, o nell’ombra, la presenza reale e non solo interiore dell’infinito, quello che si vuole accogliere in ogni suo segno, che si vuole attraversare e da cui ci si lascia attraversare, nelle profondità, fino al naufragio. Percepisce lo sperdimento, lo accoglie. “Sperdimento”: questa parola potente, così prossima alla “sperdutezza” evocata ne Il senso della nascita proprio da Giovanni Testori in dialogo con don Giussani: abisso, smarrimento e gioia, quel “grumo” irriducibile, principio e origine del nascere, dimora prima. La ricerca inesausta, quindi, soprattutto nel Diario, sembra non potersi mai appagare, se non dando forma a quelle “tracce” che si scorgono nel viaggio per evocazioni spaziali, figurative, foniche («Che strilli? Ecco / i trilli / di uccelli, s’allontanano / (più non li vedrai, pensa, non li vedrai…)», poi più avanti: «Che strilli? O brilli? / già di un’empirea luce», dove “strilli” e “brilli” sono in relazione sinestesica; oppure: «Il vento trascinava legni e lische dentate / credendo che le grosse tenaglie dei / gamberi liberassero i tesori / dai neri abissi», dove proprio a quegli abissi convoglia il sistema consonantico; «Solo i miei occhi videro, / oltre la landa brulla, / vincere la sua fuga / le murene del nulla», dove l’idea del nulla è messa in relazione ad uno spazio, quello della «landa brulla», ed è potenziata proprio dalla rima  con “nulla”…).

Se nel Diario tra due estati è ravvisabile comunque un punto di fuga prospettico, soprattutto in un baricentro vitale da cui tutto parte e a cui tutto vuole ricongiungersi (il viandante-nomade d’amoreha il piede e lo sguardo piuttosto saldi) nel Paradiso all’ombra delle spade i punti di fuga prospettici si moltiplicano; talvolta la costruzione esibisce crepe, pare sul punto di scricchiolare. È un’opera, il secondo libro, orientata nella direzione del depotenziamento, dell’abbassamento, su più livelli. Non sembrerebbe esserci una precisa “evoluzione” interna, né un disegno particolarmente nitido. Ad uno sguardo in superficie, è così. In una poesia come X Agosto, emblematica di tutto il libro,l’afflato elegiaco verso la giovinezza sembra trovare un nuovo sussulto, come nel Diario, un nuovo fremito, un ritorno, proprio nell’evocazione dei morti, anche al di fuori della similitudine:

«Era bello, al principio, quell’arrivo a frotte, sopra auto di fortuna, come una tratta d’anime all’Averno o un avamposto contro un nemico eterno? “Anche tu sei qui?” (quasi affinando lo sguardo nel folto, come uno specchio che cerchi il suo volto…). E il rito delle birre brillanti d’allegria, rito ferino, l’aumentare del rospo, su su fino allo zenit, al canto in coro. Poi il buio del corvo, il covo…».

Sicuramente l’opera è eterogenea e “impura” anche a livello delle soluzioni formali. In certe zone del libro, la dinamica di abbassamento si risolve nella riduzione tonale, nell’appiattimento metrico, per esempio, di un’elegia “depotenziata” come Le belle partite: qui alcuni versi si approssimano quasi al grado zero, si rivelano frasi tranquillamente componibili in frammenti prosastici. Di una certa importanza è l’uso piuttosto frequente di riferimenti intertestuali, talvolta con effetto ironico, talvolta funzionale, ma sempre piuttosto straniante: «Io sono uno che conosce la notte», «la tigre viola della tua assenza», «nel mattino è azzurro e tutto calmo», soprattutto quel «e ciascuno fisserà il nulla alle spalle / con un terrore da tenore italiano». Da sottolineare poi, tra un libro e l’altro, slittamenti semantici, più o meno evidenti e significativi, di vocaboli dalle frequenti occorrenze sia nel Diario sia nel Paradiso all’ombra delle spade. “Ombra” e “vento”, per citarne solo due. Nel Diario soprattutto, l’ombra dice la presenza, è allusione ad un mistero: «“S’inabissa nel lago / gelido del mio cuore”…  – / disse – e già lungamente / l’ombra affilò nel buio», alla stessa presenza divina, ombra  che discende «e sembra  che una sagoma mi segua / dal fondo dell’addio / (la mia / o l’ombra di Dio?)», dove, attraverso la rima inclusiva/paronomastica, viene suggerito, con effetto di rifrazione, il rapporto tra la manifestazione del divino e un distacco necessario dal proprio centro, dalla propria dimora; ombra biblica, ombra generatrice, preludio alla possibilità di un “inabissarsi” conoscitivo, rivelatore, per poi riemergere da un “porto sepolto”.

Nel Paradiso all’ombra delle spade, l’“ombra” mi sembra più connessa alla privazione di luce, al suo presagio («Novembre è un’ombra / che i volti muti insegue, / è un telo che copre di nero il cielo/ è un basso che suona il suo pianto […]»); al senso di minaccia («Il destino è un pazzo che ci segue / agitando un rasoio tra le ombre», poi il titolo stesso del libro), alle illusioni («Non mi avranno le antichissime ombre / né le bianche, dolcissime sirene» in opposizione a «ma solo il vento e il sole alto del mattino»), allo spettrale, alle “parvenze” («Ma vedo la tua mente come un’ombra / vaga, e il corpo in catene»). O al distacco, all’addio.  Ecco poi il “vento”, che nel Diario tra due estati «muta il male in dolcezza», plasma e vivifica spazî, prepara epifanie («Urtò la tramontana sulla vetrata, / si mosse quel vento d’altura, emerse / dal fondo delle selve» o «Entrò dalla finestra semiaperta, / dopo una lenta folata di vento, / con occhi di metallo»); segno scritturale e leopardiano di vastità, può condurre all’infinito. Può essere un tu, tramite rispetto a quella percezione di eternità: «Vento, che spiri e fai tremare i fiori / e i boschi sotto il mare – / dille che ancora spero, / che spero per l’inverno // ora che il nero stuolo ha scintille d’eterno».  Anche nel Paradiso all’ombra delle spade la presenza del vento può dire il presagio, l’attesa, anche in quei fiori quando «Tremano lievemente a uno sbuffo di vento…»; riconduce, pur nel suo essere del tutto “reale”, al vento evangelico, ad un annuncio: l’annuncio in quel vento che «non sai da dove viene, né dove va» (Gv 3,8).

Nel secondo libro questa precisa idea del vento si lega molto, anche a livello di suggestione simbolica, al volo degli uccelli. Il volo di quel piccione “profeta” incapace di cantare «quello che è già passato, o passa, o sta arrivando»; gli «uccelli in volo», «i voli imprecisati degli uccelli» o «nel tuo cielo sgombro / di nembi e nembi, // dove qualche uccello a tratti compare / smarrito o in ritardo / e vira / e si lancia a raggiungere la schiera».  Il volo che si lega al sentire «terribilmente l’arrivo dell’autunno», all’intuizione di qualcosa di là da venire. Sono anch’essi figure di alterità, inafferrabile, figure dell’attesa. Non estranea, poi, alla  dinamica interna di un complessivo depotenziamento lirico, rispetto alla maggiore compattezza “romantica” della prima opera, si rivela la comparsa, in lacerti o in frammenti più lunghi, della componente, dell’intonazione civile: «Civiltà di plastica, d’informazione falsa, / comunicazione del niente, / tramonto e menzogna dell’Occidente», vicina a certo Pasolini, a Poesia in forma di rosa, o anche a certe zone, meno veementi, dell’ultimo Montale dal Diario del  ’71 e del  ’72. E proprio al volo degli uccelli si lega la poesia che può rappresentare la sintesi migliore che coniuga narrazione lirica, memoria privata, all’afflato civile; 2 novembre:

«In quest’alba, osservando la schiera anarchica e ordinata degli uccelli, ripenso a Pasolini come un film in bianco e nero; e penso all’Idroscalo e a come sia stata simile, per amore di donna, quella mia notte sordida d’agosto nel ventre cupo e osceno di viale Togliatti, ai margini di Roma, calato come un signore feudale dai quartieri bene, nel fuoco del pericolo nascosto».

Fino all’impennarsi visivo e conoscitivo:

«Un uguale mistero lega i neri delitti ai voli imprecisati degli uccelli, agli scatti stupiti dei bambini. Il bene e il male salgono da uno stesso gorgo oscuro…».

Il gorgo, il «ventre cupo e osceno», ascesa e discesa, il bene e il male, i «voli imprecisati degli uccelli» … Se si legge attentamente, Il paradiso all’ombra delle spade si apre già con un’idea di  “sottrazione”, di distanziamento progressivo: «Da tempo, non guardo più il mare» … «Da troppo tempo non vedo più il mare», rimarcato dalla minore intensità del ‘vedere’ rispetto al ‘guardare’. Si stabilisce una distanza difficilmente colmabile rispetto ad un’esperienza di vita e di poesia, comunque “precedente”.

In questo senso il Diario è un libro chiuso, concluso. Anche in linea con la strutturale disomogeneità, eterogeneità del libro, e in sequenze comunque riconoscibili, il dettato lirico del Paradiso all’ombra delle spade, in zone testuali, ora più ampie ora più ridotte, appare così depotenziato, “abbassato”. Gli spazî, gli incontri, i volti della memoria compaiono, emergono e si inabissano seguendo prevalentemente un filo rosso di racconto. Proprio qui la memoria rappresenta un punto cardinale. Si vedano, tra le tante altre, le sequenze di Bianco e nero. Le manifestazioni del ricordo, soprattutto amoroso (ma anche parentale e amicale, come ne Le belle partite o ne Il poeta post-pasoliniano) rispetto al Diario sono espresse prevalentemente in forma di narrazione lirica. Da lì sembra partire un po’ tutto; come il bisogno di restituire colore e consistenza vitale, carne, a quella giovinezza che era ricerca di folgorazione, di spazî assoluti in un tempo di pienezza e di grazia. Quel tempo perduto, spesso oggetto sotteso di quel canto (a tratti “cantabile”) amoroso che può tuttavia incrinarsi, inasprirsi, anche nei contenuti, nei toni, nelle interrogazioni («Ecco, setacci / quei pochi stracci del tuo spettacolino: / hai il guizzo del delfino / cha a balzi appare in acque scintillanti. / Tu cosa pensi, cosa senti? –  mentre ti palpano / quei cinesi in foia, / mentre perforano ogni tuo cavo, / nel mistero di una feroce lotta / per la vita …»; «Buia è stata la tua infanzia? / Amata poco, poco coccolata? / O cos’è quella bulimica tua furia / che muta la rosa / misteriosa del piacere, in una belva lurida / e un po’ crudele? / Da dove viene?»). Ma sottesa è anche la ricerca di presenze nuove, si potrebbe dire re-incarnate, proprio nelle parvenze e nei barbagli d’amore (evocati in certi luoghi da movenze da canzonetta o, altrove, con la densità del Finisterre montaliano) da rievocare e a cui ricongiungersi, a cui restituire incanto. Il «giorno luminoso dei nostri corpi». Che «fu». Non solo, però, restituire loro l’incanto; ma anche, o soprattutto, renderle partecipi di quell’attesa. L’attesa di qualcosa di inaspettato, che elevi ad una luce alta (al «sole alto del mattino») ciò che può rischiare di essere risucchiato proprio dalle ombre, insieme alla vita stessa. Non più debole luce di falò, non più solo luce purgatoriale, fioca e mischiata a quelle ombre, tardo-estiva, messa magari in relazione con il desiderio di un futuro improbabile (come nella poesia a Mila).

Ricerca dell’inatteso, qualcosa di più, forse, del montaliano “imprevisto”. Nella poesia Nina, uno dei testi emblematici del Paradiso all’ombra delle spade, è la Bellezza che deve fiorire ed è presenza che proviene dall’abisso. Si addentra in un mistero, lo pronuncia nel distico finale, lo fa quasi con durezza: «Oh Bellezza, se sei fiore, fiorisci! / Ma confìccati e brucia nella carne…». Non è più, qui, soltanto narrazione, evocazione della memoria, ricerca di un possibile recupero di pienezza. Prima di tutto, Nina è una donna attraente, terribilmente “reale”. E la tensione verso ciò che si incarna nella realtà, come una Bellezza assolutizzata che però si “abbassa” divenendo tu, persona e oggetto d’amore, rappresenta il nuovo momento della ricerca. La bellezza non può essere incorporea, ideale, non può nascondersi: vuole, deve incarnarsi. Il verso finale di Nina si avvicina parecchio alla chiusa di una poesia di Davide Rondoni (Adieu II, «e il dolore inchiodamelo dentro / come un bene») in cui, non a caso – e il riferimento è anche in questo senso – il poeta interpella Dio.

La prospettiva nuova che si schiude è appunto questa, a partire non solo da un’idea, ma da una presenza che al tempo stesso è trascendente e personale. Fisica, bruciante. Il ‘conficcare’, l’‘inchiodare’, dicono la ‘carne’, e non solamente in relazione al canto amoroso e/o memoriale, o in funzione di un residuale vitalismo elegiaco. Viene messa in gioco, pure se non del tutto esplicitata, talvolta dissimulata, la dimensione kenotica del Dio evangelico, colui che si fa carne, eccedenza ancora più irriducibile, anche rispetto a quella intuita nell’ «ombra di Dio» evocata nel Diario. Presenza, nominata o no, esplicitata o no, che investe tutto il Paradiso all’ombra delle spade, sin dalle sua fondamenta più “fragili”, vulnerabili, proprio in questa direzione. È alluso un sovvertimento, viene esposta una poesia che porta in sé il seme del suo disfarsi, del suo possibile concludersi.  Tutto questo in uno spettacolo intenso, in un paesaggio variegato, tutto proteso a captare qualsiasi segnale che indichi un avvento, una strada che possa andare al di là di quella pienezza lasciata alle spalle.  «La giovinezza è un’isola perduta… / Tu dove sei, davvero? / Non ti ho vissuta mai…». In relazione, la perdita e la vita, l’essere e il mai. Ciò che viene cercato, per tutto questo cammino, è proprio quel «davvero». La ricerca di una vera presenza, come nella sequenza fortemente allitterante, in s, silenzio che sospende, vento leggero che si propaga e prepara.  Qualcosa sembra avverarsi: «Alta la croce illuminata, sulla chiesa di San Francesco, / e il silenzio segreto della sera / sgrana i semi del nuovo, svela il vero / per noi fratelli sepolti nel gelo». Nel gelo in cui sono sepolti i “fratelli”, quel gelo che mette a tacere, che abbassa e fiacca l’umano, negazione, disillusione e impoverimento vitale, si rivela l’altro proprio in relazione all’apparizione di una croce. La piccola sezione conclusiva del secondo libro, Varie e brade,comprende la brevissima Esterno ela traduzione “affettiva” de La Belle Dame sans Merci di Keats, dove, suggestivamente, il cavaliere-viandante continua a vagare dopo la morte anche se è pallido e «nessun uccello canta». Ma il viaggio in questo Paradiso all’ombra delle spade trova un possibile e autentico punto di snodo in un gruppo di testi che, insieme alle Lettere bolognesi, risalgono addirittura a prima della stesura del Diario; testi che mettono in campo, soprattutto, la multiforme, viscerale presenza di Giovanni Testori. Sono componimenti non solo ispirati a lui, ma che rievocano e imitano la sua voce. Forse l’inverarsi di quell’attesa così presente nel secondo libro si annida proprio in quella giovinezza lontana, intesa anche come giovinezza di scrittura, ancora prima del viaggio tra due estati del viandante-nomade d’amore. Un’idea che già si annidava lì, proprio lì, e che trova in questa ricollocazione un momento culminante. Dai Portaits for Mr. Bacon, che riportano alla Suite per Francis Bacon composta da Testori nel 1965, alle Testoriane, vere e proprie (appassionate, al limite di un precoce virtuosismo) “imitazioni” dell’autore lombardo, a quel Grünewald che rievoca la Crocifissione con lo sguardo del Testori critico d’arte.

È l’intuizione di una strada da percorrere, o da ripercorrere, a livello stilistico, di scrittura, e soprattutto a livello di visione? Il moto ascensionale, cristico, dalla carne umiliata, nella sua forma più “bassa” e sacra al tempo stesso, la stessa carne di cui si è fatto Dio… Abbassamento, incarnazione. È compimento? Chiusura del cerchio? Approdo di un’esperienza di poesia verso la chiusura e l’impraticabilità? È un azzardo, ma quest’ultima ipotesi potrebbe tranquillamente essere. In fondo tutto il Paradiso all’ombra delle spade trova già una risposta, di per sé, nel suo carattere di eterogeneità, nelle sue dislocazioni, nei suoi scarti di tono, nei suoi elementi spurî, nei “corpi estranei”, nella sua architettura un po’ sghemba, dove proprio gli scarti, le debolezze, le scompostezze, le imperfezioni sono, come in Dino Campana o in Clemente Rebora, veicolo di attesa e di apertura all’oltre, al vento dopo il recupero dei relitti, dopo quella «plenitudine perduta».