La regola del bonsai , di Carlo D’Amicis | Cultura, ATLANTE | Treccani, il portale del sapere

2022-08-20 04:18:23 By : Mr. Paul Team

La regola del bonsai, ultimo romanzo di Carlo D’Amicis, è un testo dal passo lento e giudizioso, ma sorprendente e ricco di contrasti che deformano la realtà, senza mai perderla troppo di vista («Non credo in Dio e non credo a Darwin, dubito di me stesso e non mi fido degli altri, rifiuto la realtà, ma non mi spingo ad alterarla più del 30 per cento», p. 31). La prosa è attenta (attentissima), sorvegliata e multidimensionale: una penna ricercata, ma piana, chiara, dosata, misurata, consapevole e giocosa. I giochi di parole e l’importanza della parola sono sempre sotto traccia nella scrittura di D’Amicis: nulla è casuale, il lessico tiene tutto coerentemente («Nella vita faceva il vivaista e, dal giorno in cui ero nato, accanto a piante e fiori aveva coltivato l’attesa del momento più opportuno per rivelarmi che razza di radici avessi sotto i piedi. Ma ora che Klara gli aveva rovinato la sorpresa, da uomo terra terra quale era, passò senza ulteriori indugi alla fase successiva, quella che riguardava la mia crescita, le ramificazioni, e soprattutto la maturazione e il raccolto dei frutti», p. 16). Ogni parola ha un peso determinante («Alla fine, come tutte le volte in cui apro bocca, mi pento amaramente di aver parlato, poiché ogni parola pronunciata corre il rischio di provocare un dialogo», p. 208) e si guarda allo specchio, molti passi sono ad alto contenuto retorico, evocativi («Dall’altra parte della piazza, mi indica l’ambulante, ce n’è una che dovrebbe riaprire di lì a poco. La sua croce lampeggiante mi ricorda che sono un povero cristo all’ultima stazione. Le vado incontro seguendo le scritture, e cioè rivolgendomi a mio padre e chiedendogli perché mi ha abbandonato», p. 176). È un gioco che spesso insegue una vena umoristica mai dimenticata («Auguri, giovanotto. E complimenti per il suo umorismo», p. 84): l’autore de La battuta perfetta, questa volta, scrive una storia tragica e ironica al tempo stesso, cerca e trova spiragli di luce e profonda umanità anche nel buio più nero («Il nonno è un comico?», p. 12), in una guerra cupa di opposti, mai priva di tocchi di candore («La brezza marina mi risoffia in faccia le parole come una manciata di coriandoli. Maschera triste di carnevale, resto là con la pistola che mi pende dalla mano a scrutare il mare. È una tavola nera, con dentro un minuscolo punto di luce», p. 265).

La forma non è tutto, è il 95 per cento, potremmo dire, e D’Amicis plasma il suo romanzo sapientemente, ma senza costringerlo, limitarlo, anzi, gli dà un respiro più ampio, simbolico. Chi, invece, usa le forme a suo piacimento e limita, costringe, controlla le vite delle piante, come delle persone, è il padre del protagonista: Rudolf, infatti, controlla la vita della moglie Klara e le impedisce di crescere, come fa con le sue amate piante e vorrebbe farlo anche col figlio («avrebbe cercato in tutti i modi di darmi la forma che lui desiderava», p. 14).

La regola del bonsai è un romanzo di sangue («Senza dargli retta, una folla di uomini e donne si accalcò ai piedi del palco, ansiosa di abbeverarsi al sangue della storia», p. 57), una storia che mescola verità e finzione («Le maschere continuano a sembrarmi l’unica via d’uscita», p. 18) per cercare di far quadrare i conti: Werner scopre di essere il nipote di Hitler, schiacciato per una vita da una colpa che non ha commesso («Fu allora che cominciai a incurvarmi, il peso di cui parlava mio padre scese su di me e con me rimase sempre, mentre l’uomo – leggero e indifferente alla mia sorte – se ne andava a passeggio sulla Luna», p. 17), inseguirà il suo passato muovendosi da una soffocante e selvaggia Berlino  («Ci fosse almeno un po’ di nebbia, mi dico, rimpiangendo la cappa opalescente che a Berlino nascondeva anche l’angoscia», p. 147), in cui vive da emarginato, alla Terra dei maghi, una sorta di Salento magico e inospitale in cui, forse, nulla è come sembra («Una distesa brulla, monocromatica, si allarga a trecentosessanta gradi intorno a me. A parte i cespugli di rovi e qualche albero rinsecchito, per riassumere il paesaggio circostante non servirebbero più di tre parole: sassi, sassi, e ancora sassi…», p. 146), una terra che è paesaggio dell’anima («tutto appare in necrosi, scarnificato», p. 153) che porterà luce e verità, dopo tante bugie, tentativi di distorsioni, violenze alla memoria: Memo, Omero, Anna concilieranno Werner col suo passato («Ogni uomo dovrebbe sapere cos’ha alle spalle», p. 261), col suo non essere («Raccolgo in fretta e furia le mie idee e, trascinando la gamba zoppa, mi ritrovo chissà come ad arrancare dietro a un cieco, a un cane spelacchiato e a una specie di fachiro», p. 157), con la vita che sa essere crudelmente beffarda («Invece, alla fine, è soltanto la vittima di uno stupido scherzo», p. 276)  e con alcune verità che riguardano non solo Werner,  ma ciascuno di noi («Se ciascuno di noi fosse consapevole del male che è stato commesso, e come essere umano se ne sentisse responsabile, non correremmo più il rischio di ripeterlo», p. 263).

Carlo D’Amicis, La regola del bonsai, Mondadori, 2022, pp. 288

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