Paula, il film che racconta l’anoressia di un’adolescente- The Wom

2022-09-10 04:46:41 By : Ms. zhuang qian

Paula è il secondo film della regista Florencia Wehbe, presentato al Giffoni Film Festival e in uscita in autunno nelle sale italiane. Racconta la storia di una quattordicenne, la Paula del titolo, che in un mondo come quello di oggi segnato da canoni esteti femminili irraggiungibili deve accettare se stessa e il suo corpo.

L’unico modo che ha per sentirsi uguale alle altre coetanee, per conquistare il cuore del ragazzo che ama e per non provare inferiorità nei confronti della sorella è dimagrire. Ma sceglie la via peggiore per farlo: l’anoressia, le cui conseguenze sono devastanti sia a livello fisico sia a livello psicologico.

Paula, la protagonista dell’omonimo film, è una ragazzina come tante. Ha solo quattordici anni e frequenta un collegio per sole ragazze. Tutte in divisa, le adolescenti sono legate da un rapporto di amicizia e complicità, fatto di segreti condivisi, prime cotte da esplorare e canne fumate nel cortile della scuola tra una lezione e l’altra.

Le feste sono il massimo divertimento che si concedono. Del resto, come nella migliore delle tradizioni sudamericane, sono a un passo dai quindici anni, soglia che da sempre segna in qualche modo l’ingresso nella vita adulta. Se a prima vista Paula è sorridente, dentro di lei c’è qualcosa che non va e che pian piano emerge: si vede diversa dalle sue amiche. Le sue foto non sono instagrammabili e i suoi vestiti non sono così sinuosi da attirare le sguardo di Facundo, il ragazzo di cui è invaghita. E la causa è da ricercare nella sua conformazione fisica, in quel corpo rotondo che la natura le ha donato.

I chili in più sono l’ostacolo che separano Paula dall’accettazione sociale del Terzo Millennio. In un universo in cui l’apparenza ha la meglio sull’essenza, Paula sa che non esiste se non dimagrisce. Paradossalmente, i chili in più la fanno apparire come invisibile, anche agli occhi della madre le cui attenzioni sono tutte riservate alla sorella maggiore, Sofi. Sofi è magra, è indipendente e può permettersi abiti all’ultima moda e selfie da condividere con i suoi follower.

La bilancia diventa così il nemico principale di Paula. Ma come perdere chili in fretta e non perdersi gli anni migliori? Internet e le app dello smartphone hanno le risposte che Paula cerca. Non passa molto tempo prima che l’app My Fit Control cominci a dettare regole sempre più restrittive e ritmi di vita (se hai fame, dormi) o che Google le presenti Ana e Mia, i blog che inneggiano all’anoressia e alla bulimia. I consigli su come procurarsi il vomito autoindotto sono all’ordine del giorno, così come i prodotti dimagranti miracolosi.

Per darsi coraggio e non demordere, Paula crea persino un suo nuovo profilo social,  Mi Paula, la “mia Paula”. La perdita progressiva dei chili, non facile e sofferta, le infonde il coraggio per mostrare quelli che reputa i suoi progressi e per cercare consenso. Nel suo profilo, Paula carica contenuti e condivide il suo nuovo mondo, le serate con le amiche in disco e le sue sensazioni. Trovando consenso, quel consenso social che la sua vita reale le nega.

Giorno dopo giorno, il mondo reale di Paula si sgretola. Più aumenta l’approvazione social, più Paula perde il contatto con chi le sta realmente intorno. Aumentano le litigate con la madre e si creano muri con le amiche che prima non esistevano. Per una strana maledizione, i chili persi portano via con loro tutto ciò che più caro Paula ha. Ma è proprio quando tocca l’apice della sua magrezza, indossando quel vestito tanto ambito della sorella che a inizio film aveva scucito, che Paula sprofonda nel baratro emotivo e realizza ciò che più conta per qualsiasi essere umano: accettarsi.

“Questa storia è nata dalla mia esigenza di raccontare le mie esperienze personali riguardo ai disordini alimentari”, ha raccontato Florencia Wehbe, la regista del film Paula. “Ma, durante il suo sviluppo, ha assunto una portata insolita quando mi sono resa conto di quante donne vivano silenziosamente questi stessi conflitti, infantilizzate da una società che sceglie di non guardare dove fa male”.

L’anoressia e i disturbi del comportamento alimentare vengono definiti spesso come il male del secolo e della società dell’apparire. Molto probabilmente ciò è dovuto al fatto che solo negli ultimi anni si è cominciato a parlarne apertamente. La Storia ci insegna come anche in passato fossero presenti e ne sa qualcosa la principessa Sissi, come viene raccontato nel bellissimo film con protagonista Vicky Krieps.

Quella che è cambiata è solo la percezione che si ha di essi perché internet, i social e la società dei consumi non hanno fatto altre che espandere gli orizzonti. Ogni giorno veniamo bombardati da immagini di perfezione irraggiungibili, da canoni estetici che in natura non esistono ma che spesso sono frutti di un ottimo uso di Photoshop. Non passa ora in cui un’influencer non ci venda i suoi segreti per stare in forma, in televisione non passi la pubblicità dell’ultimo integratore bruciagrassi o che sui social si palesino dirette di procaci venditrici che offrono l’ultimo ritrovato miracoloso per dimagrire.

Se è pur vero che i disturbi del comportamento alimentare interessano anche gli uomini, è assodato che le donne siano quelle che ne soffrono di più a causa di un condizionamento sociale che non perdona chi non si adegua ai modelli dominanti. Magrezza mezza bellezza, d’altro canto, è uno dei proverbi più noti della tradizione popolare italiana che la dice lunga su quanto la morbosa attenzione sul corpo sia pericolosa e deviante.

“La costruzione degli standard di bellezza femminili è una questione sociale, politica ed economica”, ha continuato la regista. “Cambia nel corso dei decenni, ma ha sempre l'unico obiettivo di abbatterci, di distruggere a poco a poco la nostra autostima. L'oppressione e il danno che il business della bellezza ha inflitto negli anni alla società, in particolare alle donne, è immenso e irreversibile”.

“Siamo il prodotto di ciò che ci viene venduto, e questo è ora più vero che mai con i social media che promuovono e vendono corpi e soluzioni magiche a problemi inesistenti. Generando più insicurezze, più consumismo e più umiliazione. Paula, il mio film, è un grido disperato, urgente, necessario; è una boccata d'aria fresca, una storia che racconta l'inizio di uno stigma che lascerà cicatrici nel corpo e nella mente, fantasmi che ci accompagneranno per il resto della nostra vita”.

E i fantasmi sono qualcosa che concretamente non scompariranno mai, come scopriremo la prossima settimana parlando con Isotta, giovane cantautrice che con la sua canzone Palla avvelenata ha affrontato la questione non negando di vivere a distanza di anni le conseguenze di uno stigma difficile da estirpare (ma adesso sei in forma, le avrebbe anche fatto notare un giornalista la cui empatia è uguale a quella di una zanzara che ti ha appena punto sul sedere).

Come stai, Paula? È questa la domanda che nessuno dei personaggi pone alla protagonista del film Paula. Sembra una domanda banale, la più comune, ma i cui risvolti sono maggiori di quanto si crede. Paula, in definitiva, è chiusa nel suo mondo, un universo in cui l’anoressia trova la porta aperta, entra e si siede comodamente.

L’anoressia è nella maggior parte dei casi un percorso che si vive nella solitudine e nel silenzio. Non a caso, viene spesso definita la Bestia e la sua rappresentazione in cinema e in televisione non è mai veritiera del tutto. Per essere veritiera, la narrazione dovrebbe entrare nella testa di chi ne soffre senza risparmiare aneddoti, dettagli e risvolti. Paula, il film di Florencia Wehbe, riesce in quest’impresa quasi impossibile con fluidità e lucido ragionamento.

Il ritratto che la regista fa della protagonista Paula, interpretata dalla miracolosa Lucia Castro, è tanto realistico quanto turbolento. Si concentra soprattutto sulla perdita della presa sulla realtà, la conseguenza forse più pericolosa (al di là dell’effettiva perdita patologica dei chili). L’anoressia non fa altro che allontanare un individuo dal contesto concreto in cui vive per costruire un immaginario parallelo in cui tutto va bene ed è sotto controllo.

In tale immaginario, anche favolistico se vogliamo, non esistono limiti fisici o limiti sociali. Si diventa più forti e coraggiosi, più spavaldi e temerari, ma solo perché cambia la percezione della nostra libertà. Quella che abbiamo raggiunto è una libertà fittizia: la Bestia è così subdola che ti porta a pensare di avere il controllo sulla tua stessa volontà quando in realtà ti ha reso schiavo di un meccanismo diabolico di dipendenza.

La dipendenza dai morsi della fame è difficile da spiegare a parole. Si corre il rischio di essere travisati perché, in superficie, appare come validante e performante. Se pensiamo a Paula, la protagonista del film, con l’avanzare della magrezza la vediamo acquisire maggiore determinazione, coraggio e voglia di ribellione, tutte caratteristiche che in altri contesti verrebbero esaltate e promosse. Riesce a farsi baciare da Facundo, ha tante amiche social che la sostengono, si ribella alla madre ed è libera di decidere se mangiare o meno, senza farsi dettar legge dal proprio corpo. Ma siamo sicuri che sia quella la vera libertà di cui ha bisogno? O la vera libertà è quella che troviamo solo quando siamo in pace con noi stessi e abbiamo accettato il nostro corpo così com’è?

Il merito di un film come Paula è quello di non cadere nel cliché della tragedia o del dramma a tutti gli effetti. Fortunatamente Paula riesce a risvegliarsi da sola nell’incubo in cui è caduta senza raggiungere livelli fisici estremi. E questo è un punto di forza della storia perché chiunque può ritrovarsi e rispecchiarsi. Soprattutto, un* adolescente, la cui quotidianità è un continuo mix di dramma e commedia, disperazione e gioia. Speriamo tutti di diventare dei dulce de leche, come canta BoyRebecca nei titoli di testa e di coda, appetibili, dolci e invitanti. Ma per farlo dobbiamo prima essere solo latte, guardare dentro di noi e capire con semplicità di chi siamo, accettando quelli che consideriamo punti deboli e trasformarli in punti di forza.

Retorica, penserete voi. Assolutamente no: è la prima lezione di vita imparata da chi, per raggiungere un ideale che non esiste, convive quotidianamente con la sua lotta contro chi vorrebbe imporre i suoi canoni e la sua instagrammabilità. Ritorniamo a riappropriarci dell’etica condivisa: l’enfasi sull’estetica a cui assistiamo impotenti ogni giorno non ci concede potere ma solo false aspettative.